Wednesday, August 20, 2008

Georgia nuova Cecenia «Questa è terra russa»


Riporto dal Corriere della Sera di oggi la prima parte di un articolo di Bernard-Henri Lévy.

La prima cosa che colpisce appena si esce da Tbilisi è l'inquietante assenza di qualsiasi forza militare. Avevo letto che l'esercito georgiano, sconfitto in Ossezia, poi sbaragliato a Gori, aveva ripiegato sulla capitale per difenderla. Ebbene, giungo nei sobborghi della città. Avanzo di 40 chilometri sull'autostrada che taglia il Paese da Est a Ovest. Di questo esercito che si ritiene essersi concentrato per opporre una resistenza accanita all'invasione, quasi non si vede traccia. Qui c'è un posto di polizia. Più lontano, un gruppo di soldati in uniformi troppo nuove. Ma non un'unità combattente. Non un pezzo di difesa antiaerea. Nemmeno quel paesaggio di blocchi e sbarramenti che, in tutte le città assediate del mondo, dovrebbero ritardare l'avanzata del nemico. Un dispaccio annuncia che i carri armati russi si dirigono verso la capitale. L'informazione, ritrasmessa dalle radio e alla fine smentita, crea un disordine incredibile e fa sì che le rare automobili che si erano avventurate fuori della città tornino indietro. Ma il potere, stranamente, sembra aver abbassato le braccia. Forse l'esercito georgiano c'è, ma è nascosto? Pronto a intervenire, ma invisibile? Siamo in una guerra dove l'astuzia suprema è, come nelle guerre dimenticate d'Africa, di apparire il meno possibile? O il Presidente Saakashvili ha scelto di non combattere, come per mettere europei e americani davanti alla proprie responsabilità e alle proprie scelte («pretendete d'essere nostri amici? Ci avete detto cento volte che con le nostre istituzioni democratiche e il nostro desiderio d'Europa il nostro governo — in cui siedono (fatto unico negli annali) un primo ministro anglo-georgiano, ministri americano-georgiani, un ministro della difesa israelo-georgiano - era il primo della classe occidentale? Ebbene, è il momento di provarlo»)? Il fatto è che la prima presenza militare significativa nella quale ci imbattiamo è un lungo convoglio russo, almeno cento veicoli, giunto tranquillamente a rifornirsi di benzina in direzione di Tbilisi. Poi, a quaranta chilometri dalla città, all'altezza di Okami, ecco un battaglione, sempre russo, appoggiato da un'unità di blindati che ha il compito di impedire il passaggio ai giornalisti in una direzione e ai profughi nell'altra. Uno dei profughi, un contadino ferito alla fronte ancora inebetito dal terrore, mi racconta la storia di questo villaggio, in Ossezia, da dove è fuggito a piedi tre giorni fa. I russi sono arrivati. Sulla loro scia, le bande di osseti e cosacchi hanno saccheggiato, violentato, assassinato. Come in Cecenia, hanno raggruppato giovani uomini e li hanno imbarcati in camion verso destinazioni sconosciute. Sono stati uccisi padri davanti ai figli. Figli davanti ai padri. Nelle cantine di una casa fatta saltare con bombole di gas, si è scoperta una famiglia che è stata depredata di tutto quello che aveva tentato di nascondere, si sono fatti mettere gli adulti in ginocchio prima di giustiziarli con una pallottola in piena testa. L'ufficiale russo, responsabile del check point, ascolta. Ma se ne infischia. Ha l'aria di chi ha bevuto troppo e se ne infischia. Per lui, la guerra è finita. Nessun pezzo di carta — cessate il fuoco, accordo in cinque o sei punti — cambierà nulla alla sua vittoria. E quel poveraccio di profugo può raccontare quel che vuole.

Vicino a Gori, la situazione è diversa e improvvisamente diventa tesa. Ai margini della strada, jeep georgiane nei fossati. Più lontano, un tank carbonizzato. Ancora più lontano, un check point più importante del precedente, che blocca il gruppo di giornalisti al quale ci siamo uniti. Soprattutto, ci dicono chiaramente che ora non siamo più i benvenuti. «Siete in territorio russo — abbaia un ufficiale gonfio d'importanza e di vodka —. Può andare avanti solo chi è accreditato dalle autorità russe». Per fortuna, sbuca un'auto del corpo diplomatico. È dell'ambasciatore dell'Estonia. A bordo, oltre all'ambasciatore, c'è il Segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza, Alexander Lomaia, che ha l'autorizzazione di andare a cercare i feriti dietro alle linee russe, e accetta di farmi salire in macchina insieme alla deputata europea Isler-Beguin e a una giornalista del Washington Post. «Non posso garantire la sicurezza di nessuno, previene. È chiaro?». È chiaro. E ci stringiamo nell'Audi che si dirige verso Gori. Dopo altri sei check point, arriviamo a Gori. Non siamo al centro della città. Ma dal punto in cui Alexander Lomaia ci ha lasciati prima di ripartire, da solo, per recuperare i feriti, possiamo vedere incendi a perdita di vista. I razzi illuminanti che, a intervalli, rischiarano il cielo e sono seguiti da brevi detonazioni. Ancora il vuoto. Odore di putrefazione e di morte. Poi, l'incessante rimbombo di blindati e auto civili piene di miliziani riconoscibili dalla fascia bianca attorno al braccio e dai capelli trattenuti da una bandana. Gori non appartiene a quell'Ossezia che i russi pretendono di essere venuti a «liberare». È una città georgiana. Ebbene, l'hanno bruciata. Saccheggiata. Ridotta a città fantasma. Svuotata. «È logico, spiega il generale Vyachislav Borisov, mentre nel fetore e nella notte aspettiamo in piedi il ritorno di Lomaia. Siamo qui perché i georgiani sono degli incapaci, la loro amministrazione è crollata e la città era in preda ai saccheggiatori. Guardate...». E su un cellulare mi mostra alcune foto di armi, di cui sottolinea pesantemente l'origine israeliana. «Credete forse che potevamo lasciare questo bazar senza sorveglianza?». Nell'accendersi una sigaretta fa sussultare il piccolo carrista biondo che si era addormentato nella torretta. «Abbiamo convocato a Mosca il ministro degli Esteri israeliano. Gli è stato detto che, se continuava a rifornire i georgiani, noi avremmo continuato a rifornire Hezbollah e Hamas». Avremmo continuato...Che confessione! Passano due ore. Due ore di sbruffonate e di minacce. Finché torna Lomaia e ci affida un'anziana signora e una donna incinta che ha portato via dall'inferno incaricandoci di accompagnarle a Tbilisi. ...


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Nella FOTO:

2 Aprile 2004- Astana, Kazakistan. Conferenza internazionale “Eurasianismo dall'idea all pratica". Il presidente russo Vladimir Putin viene nominato professore onorario alla locale, prima Università

Eurasiatista, "Lev N. Gumilev".

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