L'azione di polizia alla Moschea di Perugia. Differenti punti di vista.
Sul giornale “Liberazione” del 22 luglio scorso leggo “Perugia, operazione antiterrorismo: ed è un’altra volta razzismo”.
L’articolo scritto da Tiziana Barucci, giornalista impegnata da sempre nel campo dell’immigrazione, a prima vista sembra ostile all’azione di polizia che ha portato alla chiusura della moschea di ponte Felcino (PG) e all’arresto dell’imam e di due suoi aiutanti.
Già il titolo del pezzo induce a credere che alla Barucci sembra importare ‘ssai poco dell’azione antiterrorismo in sé. Anzi, pare che la giornalista sia più interessata alle ripercussioni determinate da questa presunta “rinnovata ostilità contro i musulmani”
Ma leggiamo le prime righe dell’articolo, che sovente, come sappiamo, rivelano l’essenza dell’intero pezzo: “ E’ scattata ieri mattina una nuova operazione antiterrorismo delle forze dell’ordine. Con lei è iniziata una nuova campagna di caccia allo straniero, che vede impegnati i protagonisti di un’opposizione xenofoba e razzista”.
Complimentoni! La Barucci non poteva essere più esplicita.
Dimenticavo, la giornalista ha creduto bene di non far mancare ai suoi lettori solidaristi e multiculturalisti la dichiarazione del segretario nazionale dell’UCOII, Hamza Piccardo che commentando i recenti arresti ha rilevato che spesse volte operazioni del genere sono finite in una bolla di sapone, ricordando che in Italia, dal 1993, sono solo cinque le persone condannate per terrorismo.
Noi, confidando anche nel fatto che la giudice Clementina è in altre faccende affaccendata, ci auguriamo che le parole del buon Piccardo cadano nel vuoto.
Guarda il caso, lo condivido pienamente.
Colgo l’occasione per ricordare che si può esprimere la propria solidarietà ad Allam per le accuse ricevute da 200 pseudo intellettuali oscurantisti inviando una mail alla redazione di “Io sto con Oriana”
Solo pochi giorni fa il comandante generale dei Carabinieri Gianfrancesco Siatzu aveva ammonito che siamo un Paese a rischio, puntando il dito proprio sui terroristi maghrebini. Ora abbiamo l'ennesima conferma dell'intreccio fisiologico tra il terrorismo islamico globalizzato e la rete delle moschee dove si inneggia alla «guerra santa» nel nome di Allah. Così come abbiamo la certezza che si tratta di una realtà strutturale, ben radicata e diffusa sull'insieme del suolo italiano. Di ciò ormai le autorità di sicurezza sono convinte perché si tratta della nuda e cruda realtà. Ma allora perché non riusciamo ad affrancarci da questa minaccia che incombe sulla nostra vita e che condiziona la nostra libertà? La prima ragione è che la magistratura e più in generale il mondo politico, intellettuale e giornalistico continuano a voler ascrivere la predicazione d'odio nell'ambito della libertà d'espressione. È significativo che solo oggi la Procura di Perugia, per la prima volta dal luglio 2005, ha proceduto agli arresti applicando l'emendamento alla norma 270 del codice penale che sanziona «l'addestramento a finalità terroristiche». Ma in generale le norme che considerano la predicazione d'odio come «apologia di terrorismo» non sono mai state finora impugnate pur in presenza della flagranza di reato. La seconda ragione è che fatichiamo ad assumere la piena consapevolezza che la vera arma del terrorismo islamico globalizzato non sono gli esplosivi o le pistole, ma il lavaggio di cervello che trasforma le persone in robot della morte. E che ciò avviene all'interno delle moschee, nell'ambito di una filiera che parte dalla predicazione d'odio che inculca la fede nel cosiddetto «martirio» islamico, si passa all'arruolamento in gruppi terroristici, poi all'addestramento all'uso delle armi e degli esplosivi, infine si arriva alla fase dell'attuazione dell'attentato terroristico vero e proprio. In Italia e altrove in Europa non si riesce a far propria questa visione d'insieme, a prendere atto che si tratta di un’unica struttura organica e integrata del terrorismo. Il risultato è che finiamo per procedere con una navigazione a vista.
Ci sentiamo in pace con noi stessi se riusciamo a convivere con i predicatori d'odio, fintantoché non scoppiano gli attentati, immaginando che ciò sia espressione di una autentica democrazia liberale. Consideriamo un successo il riuscire a scovare in tempo i piani per compiere gli attentati, considerandolo giustamente un successo degli operatori della sicurezza. Ma ci asteniamo dall'andare in profondità, non vogliamo confrontarci con la radice del male. Temiamo e scongiuriamo l'attentato, che è la punta dell'iceberg, ma non vogliamo guardare in faccia e affrontare con determinazione la realtà dell'iceberg. Piuttosto preferiamo rinviare la soluzione del problema di fondo, che se ne occupi qualcun altro che arriverà dopo di noi, il futuro governo o i nostri figli. La vicenda della moschea-scuola di terrorismo di Perugia evidenzia un altro aspetto che ci riguarda da vicino.
Il sobborgo di Ponte Felicino, che ospita la struttura eversiva, si è trasformato in un ghetto dove su circa 5 mila abitanti solo il 2% sono italiani. E i ghetti sono il terreno di coltura ideali delle identità separate e conflittuali, specie nel caso degli estremisti islamici. Il terrorismo si previene anche con una strategia dell'integrazione che impedisca la formazione dei ghetti e porti obbligatoriamente alla condivisione dei valori e delle regole comuni. Diversamente non potremo mai dar vita a un modello di convivenza sociale che salvaguardi le certezze degli italiani e soddisfi le aspettative degli immigrati. Sarebbe assai grave se la vicenda di Perugia, così come è già accaduto in esperienze simili a Cremona, Milano, Bologna, Genova, Torino, Brescia e Firenze, si concludesse con il sorriso e la soddisfazione dei responsabili della sicurezza. Perché il problema di fondo del terrorismo islamico in Italia è tutto da affrontare e da debellare.” Magdi Allam